Fare escursioni durante il periodo invernale ha un fascino particolare. Questo è ovviamente dovuto al fatto che il paesaggio muta in maniera considerevole per via del manto bianco. Nel territorio del Parco Nazionale d’Abruzzo questo fa rendere conto in maniera palese – grazie alle innumerevoli tracce lasciate sui terreni non contaminati dal passaggio antropico – di quanta fauna sia presente in questo angolo dell’Abruzzo interno.
A differenza degli ungulati, o dei piccoli mustelidi o delle volpi, le cui tracce sono distinguibili in maniera inequivocabile, le orme del lupo hanno bisogno di un occhio esperto che le guardi. Il lupo ha quattro dita nelle zampe posteriori e cinque in quelle anteriori, di cui una, il “pollice”, sospesa verso l’alto. Nella parte che poggia a terra è dotata di un cuscinetto di forma triangolare e dai piccoli ovali delle dita.
Ma non è tanto dall’aspetto dell’impronta (analoga a quella di un cane di grossa taglia) quanto dalla disposizione delle tracce che ci si può rendere conto di essersi imbattuti nelle orme del lupo. Chi abbia un cane sa bene come esso, liberato dal guinzaglio, avanzi come se non avesse meta, acceleri, rallenti, faccia improvvisi cambi di direzione, torni sui suoi stessi passi, trotterelli lasciando tracce della sua presenza. Il lupo si sposta mantenendo una direzione costante. Fila dritto, come a seguire un’invisibile linea retta sul terreno, impercettibile ai nostri occhi ma per lui certa. Insomma sa dove andare, e quello che deve fare.
Quando si ha la fortuna di incontrare le tracce di un branco, decifrarne il numero è cosa ardua. Immaginate una colonna di soldati, tutti sulla stessa linea, il maschio dominante in testa a fiutare il terreno. Ognuno del gruppo posa le zampe nello stesso identico punto dove è passato l’animale che lo precede. Una sola traccia, come se fosse lasciata da un unico esemplare. Questo è detto “calcolo distribuito”, per ottimizzare le energie che si spendono nel camminare su un terreno innevato. Ovviamente questa sistema può avere delle eccezioni, nel caso di una curva o di un ostacolo improvviso. Solo in questi casi è possibile intuire di quanti elementi sia formato il branco.
Quarant’anni fa i lupi erano ormai prossimi all’estinzione. Per via di un antico retaggio, era (ed è tuttora) considerato un animale pericoloso. Fino gli Anni ’70 la caccia al lupo veniva incoraggiata, e persino nelle aree protette come il Parco Nazionale d’Abruzzo, il lupo era regolarmente abbattuto dagli stessi guardaparco. È stato, per assurdo, proprio lo spopolamento dell’Appennino a favorirne lo stato di salute, limitando gli incontri con la specie più temuta dal lupo: l’uomo.
Eppure durante le mie uscite in montagna, mi piace ricordare un aneddoto, essendo figlio di un pastore ed essendo cresciuto in un luogo che prima dell’avvento del turismo fondava tutta l’economia sull’allevamento delle pecore.
Nella mia famiglia la consapevolezza dell’importanza del lupo era molto radicata. Quando la sera, prima di mettere le pecore negli ovili – comunemente detti “stazzi” – si faceva la conta del gregge, dal numero finale dovevano essere sempre sottratte due unità, che erano lasciate a beneficio del lupo.
Conservo questo ricordo nella mia memoria come un atto di infinita gratitudine e rispetto per il rivale numero uno della mia famiglia. Persone che vivevano un conflitto reale e avevano maturato la consapevolezza che loro e i lupi fossero al vertice della catena alimentare.
Era una lotta ad armi pari con il predatore per eccellenza.