Non vedere il bosco per via degli alberi
Alla scoperta delle Foreste Vetuste (parte 1)
Alla scoperta delle Foreste Vetuste (parte 1)
La successione degli eventi durante una gita in montagna, che per molti è una prima escursione, raggiunge il culmine quando si riesce ad avvistare un animale selvatico. Però il più delle volte (purtroppo) non avviene, allora cerco di spiegare ai miei clienti che non è cosa semplice; molte volte bisogna affidarsi al caso, alla fortuna, specialmente durante le prime uscite.
Per vedere gli animali selvatici nel loro ambiente, bisogna addentrarsi nel loro territorio e seguire regole ben precise, che il più delle volte possono andare in contrasto con i regolamenti (giustamente) molto stretti delle aree protette. Questo però non ci deve impedire di godere della meraviglia che ci circonda e apprezzarne il contesto. Imparare a riconoscere le caratteristiche di un determinato territorio, azione che a volte può sembrare noiosa e potrebbe apparire monotona, è invece alla base delle uscite in montagna.
Gli scenari all’interno di un bosco mutano, a volte in maniera impercettibile. Le piante che a volte si trovano rade in una porzione di bosco immediatamente dopo possono essere molto vicine, o altrettanto distanti l’una dall’altra. Quello che si ricerca di più in un’escursione è la possibilità di guardare oltre. Spesso si tende a raggiungere il massimo della soddisfazione una volta in cima, quando finalmente si può ammirare il panorama. Per fortuna non è solo così: ogni volta che entriamo in un bosco non dobbiamo farci ingannare dalla quantità di scenari simili tra di loro, dove tutto può sembrarci uguale. È proprio in questi dettagli che si concentrano migliaia di catene trofiche, in un albero morto, schiantato per i più svariati motivi c’è tanta vita quanto quella che, su altra scala, può abitare un’intera valle appenninica.
Uno degli obiettivi che mi sono posto con il mio lavoro, oltre il fatto naturalmente di camminare su questi territori e di avvistare un branco di lupi o un orso in natura, è quello di ripassare un po’ di selvicoltura, che, oltre ad essere una bellissima materia, mi riporta sempre agli anni della mia formazione scolastica (fiero di essermi diplomato all’Istituto agrario, dopo aver preso la specializzazione di esperto forestale). Una materia che ci fa capire dove stiamo mettendo i piedi e cosa fondamentale ci fa capire come gli animali si muovano in questo territorio, soprattutto in base alla disposizione delle piante. Che sono alla base di tutto.
Nel 1922 fu inaugurato il Parco Nazionale d’Abruzzo, e sulla lapide commemorativa all’entrata del paese di Pescasseroli le parole scolpite sono chiare:
“Il 9 settembre del 1922, per iniziativa di un Direttorio Provvisorio presieduto dall’onorevole Erminio Sipari, parlamentare locale e autorevole fondatore del Parco, un’area di 12.000 ettari ricadente nei comuni di Opi, Bisegna, Civitella Alfedena, Gioia de’ Marsi, Lecce dei Marsi, Pescasseroli e Villavallelonga, insieme a una zona marginale di 40.000 ettari di Protezione Esterna, divenne Parco Nazionale alla presenza di tutte le autorità, presso la Fontana di S. Rocco a Pescasseroli, dove resta una lapide corrosa dal tempo a ricordo del famoso evento, con la seguente iscrizione: Il Parco nazionale d’Abruzzo sorto per la protezione delle silvane bellezze e dei tesori della natura qui inaugurato il IX Sett. MCMXXII”.
Silvane bellezze per l’appunto.
Ci facciamo aiutare dalle parole di Marco Albino Ferrari e dal suo “La via del lupo” per uscire dalla consueta “scala del paesaggio”, addentrarci in particolari meno visibili ma sicuramente più eccezionali, in attesa di scorgere le sagome dei nostri animali selvatici preferiti. Lasciandoci trasportare dai nostri passi nella penombra dei faggi, “tra odori di terra bagnata, di muschio, di muffe, ognuno dei quali potrebbe condurci a dettagli sconosciuti”. Partendo dal prato.
“Ogni prato circondato dal bosco rappresenta per lo sguardo del naturalista lo stadio preliminare dell’affascinante fenomeno chiamato successione vegetazionale. La successione vegetazionale si può riassumere come una serie di fasi evolutive che partono da una situazione e tendono spontaneamente a evolvere verso lo stadio finale chiamato climax. Osservare un prato immaginandolo come l’embrione di un organismo in evoluzione che serve a capire come in natura tutto tende ad evolvere verso un equilibrio stabile.
Il processo evolutivo della vegetazione parte dunque dal prato, sul quale si insidieranno col tempo le prime piante pioniere, piante in grado di affrontare situazioni di stress, come temporali, venti forti, cambi repentini di temperatura. Questo luogo spazzato di continuo dagli elementi è ancora un sistema ecologico che corre verso nuovi equilibri. Quello delle prime piante pioniere sarà già uno stadio verso nuove complessità dell’ecosistema. Bisognerà aspettare ancora decenni, fin quando arriveranno le prime piante ad alto fusto. Cominciando così a dare la forma a quello che diventerà un bosco.
Nella nostra porzione di Appennino, e a queste altitudini, in una situazione di spontaneità arriverà a formarsi la faggeta. La faggeta dovrà invecchiare, morire, decomporsi, e rinascere fino a raggiungere il massimo della complessità ecologica, ed arrivare allo stadio di climax finale. Quando tutto questo avviene si riesce ad arrivare alla massima complessità delle interazioni tra le specie animali e vegetali presenti. Ci sono comunità vegetali che permettono la vita a comunità animali, e viceversa”.
Nelle escursioni che tengo all’interno del Parco Nazionale spesso mi capita di passare attraverso tratti di bosco che spaccano la successione con lo scenario precedente. Questi sono i segni di come un tempo questi boschi servivano per l’economia, e di come la mano dell’uomo abbia modellato a suo piacimento porzioni di bosco che servivano per lo più a quella che era l’industria boschiva.
Chi non conosce il famoso bosco di “Forca d’Acero”, molte volte usato per pubblicità di prestigiose case automobilistiche o come set di film quale ad esempio “C’eravamo tanto amati”? Qui si trova un popolamento di faggi colonnari, alti, monumentali, tutti uguali tra di loro con quasi lo stesso diametro. Come mai? Basta riprendere il testo che usavo durante le superiori per scoprire che questo è un “bosco coetaneo” dove è stata la mano dell’uomo a conferire questa specificità all’ambiente.
Ma lasciando la strada provinciale che conduce a Sora per addentrarci all’interno del bosco nel versante laziale si nota che il bosco assume una nuova forma. I faggi non hanno più la stessa dimensione e cominciano ad avere un aspetto “disetaneo”: piante giovani di tanti diametri si trovano insieme a piante mature. Piante con diametri importanti, (matricine) insieme alberi di minute dimensioni (novellame). Sono frutto della scelta operata da uomini che avevano bisogno di un continuo e costante flusso di alberi, senza mai forzare i tempi di ricrescita e sfruttare troppo l’ambiente.
Altro segno indubitabilmente affascinante dell’antica selvicoltura è la presenza di ceppaie. Quando la pianta di partenza è stata tagliata, l’uomo che sapientemente lascia la possibilità alle radici di continuare l’opera di circolazione delle sostanze nutritive, fa sì che si metta in moto un sistema di difesa, generando una rivoluzione che fa tornare attive le parti aeree della pianta. Un faggio tagliato o abbattuto da un temporale conserva le radici ancora vive, svegliando così le gemme dormienti pronte a dare origine ai polloni che spuntano come per miracolo dai ceppi oltraggiati.
Il percorso per arrivare alle foreste vetuste è ancora lontano nello spazio e nel tempo. Prima di giungere a una foresta dove il climax trova il suo compimento… la strada da fare è ancora tanta.
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