Si sta inevitabilmente andando verso l’omologazione delle nostre vite. La vita di tutti gli adolescenti del pianeta si somiglia, soprattutto in questo momento di pandemia mondiale. Il futuro che tanto mi agitava durante l’infanzia è arrivato, ed è doveroso ora cercare di ricordare come un tempo si viveva da queste parti, nei centri montani di questo frammento d’Appennino.
Quando era inverno, il territorio del Parco e tutte le aree interne della dorsale centrale appenninica venivano abitate solo dalle donne. Gli uomini erano nel Tavoliere pugliese. Avrebbero fatto ritorno solo una volta passato l’inverno. E’ una storia antica, il racconto di un tempo vissuto dai miei genitori, prima dell’avvento di internet, prima dell’arrivo dell’era moderna. Io ne ho vissuto una parte, giusto il tempo dello sgretolamento. Sono nato a cavallo di un tempo che stava finendo e un altro che cominciava. Il calendario e le stagioni avevano un’importanza notevole. Il tempo aveva degli obblighi, dei diritti, dei doveri e piaceri, ma era un tempo da cui non si poteva prescindere. Era l’epoca della “Transumanza”, una parola la cui etimologia chiarisce tutto: quei passi li conosce la terra, altri come me possono solo accontentarsi di un ricordo, di un sentito dire, che si fa fatica a scrivere.
Qui più che in altri posti, la natura, nel tempo di sessanta/settanta anni, si è rinnovata con l’abbandono e ha rinvigorito il suo indistinto splendore. I posti che sono solito frequentare con i miei clienti fanno riemergere i racconti che mi faceva mio padre quando nelle giornate meno impegnative mi portava con sé, in montagna. Mio padre era un “pastore transumante”. Alle nuove generazioni questo mestiere non dice nulla, ma basta fare un salto indietro nel tempo per afferrarne al volo il significato. I sentieri che oggi hanno una collocazione ben precisa, atti a non far perdere l’escursionista di turno, servivano un tempo a chi ne faceva uno strumento fondamentale del proprio lavoro.
La fitta rete delle mulattiere e dei sentieri di un tempo è stata invasa da rovi, spini e cespugli, e oggi si è sgretolata. L’intero sistema montano che produceva economia, modi e costumi di una società legata alle montagne, ricchezza e cultura, non esistono più. Dovrebbe essere merito o colpa, (questo è ancora da vedere), del progresso tecnico e materiale che ha svuotato i monti. Aveva promesso prosperità, ricchezza e uno stile di vita più sano, offriva i presupposti per una maggiore stabilità. Ciò che abbiamo creduto buono, ciò che abbiamo voluto, ha dissolto un mondo. Volevamo le comodità e ci siamo accomodati ovunque, purché fosse altrove. Eppure vedo solo persone più stanche, malate di nuove malattie che prima erano impensabili. Molti sono partiti con la speranza di riuscire. Erano poveri e liberi, ora sono poveri e schiavi. I miei coetanei spesso stanno godendo dei sacrifici fatti dai loro genitori.
Era una vita fatta di grandi sacrifici e condizioni di vita che rasentavano l’insostenibile. Eppure oggi se ne sente la mancanza. Tutto è cambiato. Oggi la montagna si configura in una dimensione puramente estetica, perlopiù in una dimensione sportiva. Quella che era considerata la stagione cattiva è diventata buona, anzi perfetta, il territorio è usato come un supermercato dove è possibile comprare divertimento o una parentesi di benessere. In effetti anch’io mi sono riciclato. Oggi gestisco una cioccolateria e porto gente in montagna. Come ho detto in altre occasioni: “mi sono salvato” da un futuro di pastore.
Sono bastati pochi anni a sgretolare una cultura millenaria, fatta di persone che si muovevano in armonia con la natura. Non so a chi di voi sia capitato di guardare vecchi paesi, come per esempio Civitella Alfedena, e notare come stonino le nuove abitazioni al fianco di quelle vecchie. Prima le case facevano parte di un tutt’uno con la natura circostante, oggi violentano il paesaggio. È la modernità, l’abbiamo cercata, l’abbiamo voluta e ora ne paghiamo lo scotto.
Poteva essere un susseguirsi di eventi, il normale trascorrere del tempo ci avrebbe traghettato nell’era moderna, e attraverso le nuove conoscenze e tecnologie si sarebbe trovato un equilibrio tra un passato glorioso e un futuro pieno di alternative. Abbiamo fallito.
C’era un pastore che aveva cento pecore. Novantanove le perse, e se la prese con l’ultima. La ingiuriò sprezzandola: non hai capacità d’inventiva, non hai autonomia, sei conformista, non ti concedi nessuna trasgressione, non dai soddisfazione. La maltrattò e la cacciò, sprangando la stalla. “VENDESI” – scrisse sulla porta utilizzando lo spray blu uso zootecnico – “VERA OCCASIONE. Rustico abitabile a norma del piano regolatore per lo sviluppo turistico delle aree montane depresse”. Finalmente, si disse avviandosi al convegno dove si discuteva il ciclo della pastorizia, liberi dalle bestie possiamo organizzare una festa, una gran bella festa. La chiameremo “Festa della Transumanza”…
Dobbiamo ancora chiedere scusa a chi ci ha preceduto. E io a mio padre.