“Per esempio la differenza fra paesaggio e panorama”.
Mario, un compaesano del paese in alto, l’ho conosciuto così, con questa frase sulla “genetica” delle parole e con quella che poi scoprì essere una sua passione: l’etimologia dei vocaboli.
Era una domenica di ottobre, un’aurora diafana e rilucente sgrovigliava dall’oscurità i lineamenti delle montagne in lontananza, mentre rade nuvole ombreggianti alitavano le loro ultime particelle contro la luce nascente del giorno. Tutto lasciava supporre sarebbe stata una mattinata soleggiata, quella giusta per tornare dopo anni e anni a camminare di nuovo nelle “mie montagne”, senza i tempi, le occasioni e gli abiti di forestiero.
Le mie montagne e i miei 45 anni anni sono qui, ad Aielli, il mio piccolo villaggio abruzzese, dove sono tornato a vivere dopo venticinque anni di vita a Roma.
E’ cambiato tutto nella mia vita? Sì, lo è. La consapevolezza di una scelta meditata, seppur mediata con alcuni ultimi avvenimenti amari, ha iniziato ad essere una possibilità concreta già da alcuni anni, gli ultimi in città, quando sempre più frequentemente l’idea di un cambiamento mi incalzava e pungolava tenacemente.
L’amputata vita di periferia cittadina – una relativamente nuova ma già brutta periferia con la sua vocazione a reinventare il concetto di vivibilità rimasto però sulla carta – una città inceppata e impelagata nei suoi sempiterni mali, la fortuna di poter approfittare di un lavoro da remoto, tutto ciò ha facilitato il possibile nuovo corso, sollecitato l’opportunità e infine concretizzato l’aspirazione.
E allora eccomi qui, il caffè senza zucchero e il miele al castagno, l’aurora agghindata da alba ad abbozzare un chiarore lussureggiante fino a diventare un mattino compiuto, l’altopiano “Lucente” già laborioso davanti agli ancora sonnacchiosi sguardi mattutini, il silenzio del paese ancora addormentato e alle spalle la dignità delle prime vette (monte Etra, monte Secino, monte San Pietro), vestiboli del più solenne e solitario Sirente.
Sarebbe stato un delitto rimanere in casa, così decisi di salire su ad Aielli Alto, avamposto meridionale per i primi sentieri del parco Velino-Sirente e parcheggiata la macchina poco dopo la Torre delle Stelle, iniziai a salire lungo la carrareccia che conduce alla chiesetta degli alpini, preceduta dalla statua omologa, solitaria e silenziosa sentinella di questi terreni montani, per proseguire poi fin su al rifugio Canale.
Mario era poche centinaia di metri davanti a me, già da basso notavo il suo incedere mite alternato a delle pause (scoprii durante la mattinata che ne avremmo fatte diverse e tutte istruttive), e infatti lo avvicinai mentre era fermo su un tornante e affacciato sull’altopiano del Fucino e sulla sua perfetta circolarità delimitata dai monti già imbiancati del Parco Nazionale d’Abruzzo, dalle più basse vette degli Ernici e dalla inequivocabile piramide apicale del sommo Velino.
Così mi fermai a parlare con lui.
Proseguimmo assieme fin su al bivacco e poi oltre fino a raggiungere la cima di monte San Pietro, per poi ridiscendere, dopo un periplo in cresta a toccare spalle poco distanti e agevoli, in compagnia di un altro Mario, amico del paese, intercettato mentre riposava seduto sul fontanile ancora asciutto.
Ed è stato così, quindi, che un rinnovato salvacondotto per le mie montagne originato da un incontro casuale (come spesso accade camminando) a colloquiare di parole, spiritualità e storia del territorio, ha attestato il mio ritorno a casa. Ritorno a casa, questo è indiscutibile, ma soprattutto un nuovo inizio.
Punto e a capo.
Una nuova pagina da scrivere si porta dietro la narrazione tracciata alle spalle, con l’accortezza di non sciuparne le esperienze e gli incontri, le abitudini e le contingenze, per poter aspirare a comporre ancora un nuovo capitolo del “romanzo della propria esistenza” e continuare ad “amare la vita oltre la sua logica e capirne il senso”, come diceva Fedor dalla sua lontana San Pietroburgo.
Si è chiusa, quindi, la stagione della freschezza, delle stramberie e delle intemperanze giovanili, della smania cittadina e dei suoi posti splendidi ma sempre troppo affollati, delle consuetudini lavorative e di quelle ricreative (il mio cinema, la mia trattoria, la mia piazza, la mia comfort zone) e se ne apre una nuova – tornata a nuovo – appartata e silenziosa, di una genuinità bonaria, sgombra di lustrini puerili, fatta di schiettezza e ruvidezza generosa, di terra e affetti interrotti, di legna sul fuoco, nevicate e tramontana, di costumanza familiare.
Iniziano nuove giornate, non più scandite da cadenze cittadine, ma da tempi dettati dalla natura madre e dalle sue regole, in cui impadronirsi di nuovo delle vecchie abilità richieste (l’orto, la vigna, gli animali, la dispensa) e poter apprenderne di nuove per (anelare a) diventare depositario di quella perizia tipicamente contadina che il vivere in campagna richiede.
La campagna, quindi, come fonte ispiratrice di idee e nuove meditazioni.
E la campagna appenninica con le sue storie di ritorni, di incontri e cammini – in questo spazio ideato dall’amico Tiziano – vuole essere come una piccola “quarta di copertina” a compendiare la vivacità e il patrimonio della mia, della nostra aspra e amata terra.
Pino Mazzulli